Cristina Ruffoni, La violenza della bellezza. / non pubblicato

Posted on Agosto 4, 2005

Andrea Zucchi è nato nel 1964 a Milano, dove vive e lavora. Come l’artista F. Marc (1880-1916) arriva alla pittura dopo i trent’anni, con la stessa passione ed interesse per il misticismo, gli studi filosofici e le culture orientali. Entrambi hanno in comune anche la passione per gli animali, non per studiarne il carattere ma perché i loro movimenti spontanei rivelano una naturalità originaria che l’uomo ha ormai perduto.

L’artista milanese ha esposto in collettive e personali, in particolare per la XIV Quadriennale – Anteprima a Torino nel 2004 e nel 2000 nella mostra “Sui Generis” al PAC, Padiglione d’Arte Contemporanea a Milano. L’ultima personale “Combinatoria” è stata nel 2004, nei mesi di ottobre e novembre all’OBRAZ, vicolo Lavandai 4, Milano.

Il suo lavoro pittorico si compie in diversi tempi. Prima c’è il prelievo d’immagini fotografiche, senza un progetto a priori, che l’artista seleziona dal suo archivio personale: libri, riviste, giornali. Quasi come lo zapping televisivo. Poi, si arriva alla composizione, la messa in scena, le inquadrature delle immagini, la scelta dei soggetti..

La sequenza finale vede l’artista inserire nel quadro degli elementi neo plastici, quadrati o rettangoli. Nel passato c’erano dei mirini, linee sottili che simulavano un vetro, uno schermo, forse una distanza di sicurezza tra chi dipinge e chi guarda. All’artista non interessa la narrazione e neppure scatenare associazioni psicologiche personali, chiede soltanto all’interlocutore per una volta, di non muoversi e soffermarsi sulle immagini senza lasciarsi fagocitare da esse.

I critici hanno spiegato quello che Andrea Zucchi non è: surrealista, manierista, pop, concettuale, citazionista o post moderno. Forse per interpretare il “silenzio d’acquario” bisogna andare indietro nel tempo, alla pittura del ‘600, al Caravaggio.

Lo spazio, anche nelle tele di Andrea Zucchi è poco profondo, senza scorci prospettici. Le figure sono presentate l’una accanto all’altra nel modo più semplice, nessun artificio compositivo. Vi sono cose vicine, come un acaro in primo piano, che si vedono nei minimi particolari e cose lontane, la raffineria o la bomba atomica, che paiono velate da strati di atmosfera luminosa. L’unità e l’armonia della figurazione è data dai colori. La realtà così inquadrata e messa a fuoco è più vicina. E’ un istante reale, un frammento vivo della nostra esistenza.

Caravaggio “il ribelle” avrà conseguenze lontane fino a Velazquez, in Spagna. Ed è proprio Velazquez che Andrea Zucchi ammira e sogna. Poi si lascia abbagliare allo stesso modo da un’astronave in un film di fantascienza, perché è la varietà, l’evoluzione e il mescolamento delle forme che affascina l’artista. Come le due tigri del ciclo a cui ora lavora.

In quest’ultimo quadro non ancora ultimato, vuole rendere e visualizzare il movimento. Nei quadri polari, invece era la luce la protagonista. In ogni caso si focalizza la composizione e si struttura la forma ideale che non allontana la realtà ma l’avvicina.

Caravaggio ha una precisa idea della storia e affronta il suo problema in molti dipinti. Non gli intessa il fatto istantaneo ma la durata, Un fatto che si protrae nel tempo o il fatto vissuto a rallentatore.

Anche nei tuoi quadri abbiamo la stessa dinamica ad esempio nella bomba atomica o il crollo delle torri gemelle, anche se poi nessuna immagine è privilegiata rispetto alle altre. La diretta, la cronaca, la natura e i simboli religiosi diventano parte di un lento vortice.

Nessuna immagine può essere privilegiata quando siamo immersi in un vortice mediatico che quotidianamente invade il nostro spazio visivo. Ma un’immagine dipinta, oggi forse più che ieri, conserva o forse genera un senso di durata che cattura maggiormente la nostra attenzione percettiva.

Alcuni tuoi dipinti sono quasi quadrettati dall’incrocio delle verticali e delle orizzontali:: un telaio che incasella cose e figure dando a ciascuna la stessa evidenza delle altre. Una lucida oggettività. Nell’ultimo quadro delle due tigri queste sono gli unici soggetti presenti e delimitate soltanto da due bande alla fine e all’inizio del quadro ma non sulle immagini, quasi una cornice. Il cielo o l’acqua sullo sfondo come è stato fin ad ora dipinto dimostra un particolare pittoresco incentrato su questo parte del dipinto. Qualcosa è cambiato?

Tendo a lavorare per cicli che si sviluppano intorno a precise tematiche formali. Sto iniziando ora a lavorare su una serie d’immagini d’animali in movimento per riuscire a superare una mia tendenza al conchiuso e al rifinito. Vorrei da una parte semplificare la composizione e dall’altra complicare la stesura pittorica accentuando degli aspetti di sfuocato e non-finito.

Ho subito pensato a Henri Rousseau vedendo i tuoi quadri. L’unico maestro innocente, poteva rimanere a Parigi, senza fuggire come Gauguin a Tahiti e Rimbaud in Africa. A Rousseau non interessa essere verosimile. Tutto viene minuziosamente descritto in ogni particolare. La visione si fissa, immagine presente e concreta..

Rousseau è una figura affascinante ma non credo d’avere particolari affinità con il suo mondo, anche se in genere sono attratto dai visionari. Non ho un mio mondo interiore da rivelare, cerco più che altro di rappresentare ciò che dall’esterno colpisce la mia sensibilità. Sotto molti aspetti sono abbastanza ingenuo, ma non sono innocente. L’innocenza può generare un grande talento ma la grande arte richiede estrema consapevolezza. Purtroppo si può essere intellettualmente molto consapevoli e di scarso talento.

Uno dei tuoi modelli è Francis Bacon, ma ammetti che non potresti mai arrivare alla sua sublime degradazione.

Riesce persino a deformare un ritratto di Innocenzo X di Velazquez. La realtà per lui, alla fine si corrompe, diventa schifosa e ripugnante, nulla di spirituale. Fino a che punto condividi almeno teoricamente questa visione e cosa ti frena a sperimentarla nella tua pittura?

Può sembrare strano ma trovo che Bacon sia stato estremamente ascetico, e sotto certi aspetti un gran moralista che aborriva ogni forma di falsificazione. L’ho guardato molto e ho anche imitato certi suoi aspetti nel passato. I miei primi lavori erano un frullato misto di Bacon, De Chirico, pittura manierista e fumetto di fantascienza.

E’ molto facile scimmiottare Bacon, ma senza il suo genio è una strada in cui ci s’impantana pericolosamente.

E forse non ho avuto abbastanza coraggio per inoltrarmi in quella direzione sino in fondo, e ho fatto retromarcia.

Con il ritorno del figurativo nella pittura si usano diversi espedienti e linguaggi espressivi diversi, come l’iperrealismo, il gioco tardo surrealista dell’accostamento di immagini senza un senso comune, fino ad arrivare all’esaltazione dell’orrido e del viscerale.

Le tue tigri alla fine sono belle. “La violenza peggiore, quella a cui è impossibile opporsi, la più sottile e la più bestiale, è la violenza della bellezza” e tutti i poeti e gli artisti l’ hanno sempre saputo ma fingono di ignorarlo per non essere tacciati di passatismo accademico e di superficialità estetica. Tu cosa ne pensi?

La bellezza può essere estremamente crudele perché ci mette a confronto con la verità, e la verità ci fa sempre male. Ma è anche una delle poche cose per cui valga la pena di vivere.

Dopo la tua passata immersione ed indagine in diverse religioni e “la caduta della tua anima in uno stato di sonno”come tu stesso sostieni, pensi che in qualche modo la forza delle fede non necessariamente cattolica o la consapevole mancanza di un Dio possa influire sul processo artistico e sull’interpretazione del mondo?

Lo spirito soffia dove vuole e dove meno te lo aspetti, indipendentemente dai nostri credo e dai nostri desideri.

Cristina Ruffoni.