Alberto Fiz, Post Pulp Pop, catalogo della mostra / exhibition catalogue, Spazio Consolo, Milano.
Da qualche tempo, la fotografia si è impadronita della pittura. Per uno strano scherzo del destino, il clic si è preso la rivincita sul pennello e oggi, per essere politically correct, è necessario utilizzare un procedimento fotografico che risulti più o meno evidente allo spettatore. È assai curioso come, oggi, la pittura sia considerata da taluni troppo realista e documentaria, mentre la fotografia, un tempo specchio fedele della realtà, ha assunto un connotato autenticamente moderno come se, solo con l’ausilio del mezzo foto-meccanico fosse possibile produrre una ricerca in sintonia con il pensiero contemporaneo.
Questa abbuffata di video e fotografia, tuttavia, contiene in sé forti rischi, dal momento che, in molte circostanze, dietro al paravento di una presunta modernità, la modernità, la ricerca artistica viene indirizzata verso l’accettazione passiva di codici linguistici che non le sono propri.
Se la multimedialità è, certo, un fondamentale arricchimento dell’esperienza visiva (basti pensare ai risultati recenti raggiunti da Bill Viola, Tony Oursler o, in Italia, dallo stesso Mario Airò) perde d’interesse quando diventa un fine e non un mezzo assurgendo a dogma nell’ambito di un sistema dell’arte troppo spesso bloccato all’interno di schemi rigidi.
Chi non accetta le regole del gioco è Andrea Zucchi. Lui preferisce andare controcorrente, utilizzando le immagini fotografiche pubblicate su giornali e riviste come punto di partenza per imporre un universo segnico e linguistico autenticamente visionario, dove vengono rispettati, in primo luogo, i codici della pittura, in una sovrapposizione d’immagini destinate ad incidere sul nostro inconscio.
Il giovane artista milanese, insomma, attraverso la fotografia, libera la pittura, agendo in senso contrario rispetto a molti suoi coetanei. Il documento. Il reperto massmediologico, il frammento di cronaca, vengono decontestualizzati e diventano lo spunto per entrare in un universo dove le immagini sono una pura astrazione mentale perdendo l’illusione di un significato- del resto, come avverte lo stesso Zucchi, “il vero senso delle cose ci è estraneo”.
In questo caso si potrebbe dire, con il filosofo francese Maurice Merleau-Ponty che “il mondo del pittore è un mondo visibile, nient’altro che visibile, un mondo quasi folle, perché è completo e parziale nello stesso tempo”[1].
L’artista agisce accostando i soggetti per assonanze visive cercando l’armonia interna di forme e colori attraverso un’apparenta casualità che nasconde, a ben vedere, un’indagine meticolosa: non insegue una scrittura automatica di derivazione surrealista ma, dietro ad ogni opera, s’intravede una struttura testuale che agisce secondo regole percettive proprie che si rifanno ad un mondo interiorizzato e visionario.
“Il quadro”, ha scritto Roland Barthes, “è l’infinito del linguaggio. L’immagine non è l’espressione di un codice, ma la variazione di un lavoro di codificazione: non è deposito di un sistema, ma generazioni di sistemi”[2].
Proprio l’infinito del linguaggio interessa a Zucchi che tende ad esautorare la realtà dall’apparenza dei significati per catapultarla, una volta ridotta a brandelli, nel non luogo della pittura compiendo una rilettura originale di Marcel Duchamp.
In questo caso, infatti , l’esperienza reale viene trattata alla stregua di un ready made che si trasforma prima in un oggetto pittorico e, successivamente, costituisce la struttura che porta “al delirio della visione”[3].
L’immagine, dunque, non si cerca ma si trova e sarebbe inutile chiedere a Zucchi le ragioni di molti suoi accostamenti. Lui per primo, non lo sa vittima delle sue stesse creazioni (o più correttamente apparizioni) che s’impongono sulla tela assumendo una vita propria. Del resto, “le forme visive s’influenzano a vicenda”[4] e, come sosteneva Paul Klee, non siamo noi che guardiamo le cose, ma sono le cose stesse che ci guardano.
È, dunque, perfettamente inutile chiedersi perché in un’opera recente, Senza titolo facciano la loro comparsa due donne afghane con il volto coperto e ai due lati vengano sistemati una carcassa di squalo e una giacca nera appesa al rovescio che sembra un personaggio uscito da Martin Mystére.
Lui forse non lo sa ma i suoi quadri sono un ottimo test di Rorschach e consentono a chiunque di proiettare nell’opera le proprie inconfessabili visoni. I suoi dipinti sono lì, pronti a farsi sezionare e a interagire con lo spettatore, che nel labirinto delle forme ritrova una parte di se stesso.
Le opere dell’’artista difficilmente consentono una lettura unitaria e il più delle volte appaiono spezzate, inframezzate da immagini secondarie che ora convivono ora si oppongono a quelle primarie e, come in Internet, si ha l’impressione che cliccando su una delle inquadrature rappresentate, improvvisamente si aprano altri mondi, altri universi visivi in un gioco di scatole cinesi estremamente affascinante. Si prenda, per esempio, un’opera come Hindu piercing with car crash dove un uomo hindu come un piercing che unisce i due angoli della bocca e un enorme collana di frutta appesa al corpo (non è un’invenzione pittorica, ma la riproposizione di un antico rito hindu) si trova proprio davanti alla proiezione di un’immagine in scala minore dove viene raffigurato uno spettacolare incidente degno di un film hollywoodiano. Ecco, in questo, come in molti altri casi, si ha l’impressione di poter interagire con il quadro facendo sparire la figura dell’hindu e ingrandendo l’immagine dell’incidente. O viceversa, a seconda dei propri desiderata.
Tutto è possibile di fronte ad una pittura fatta di enigmi senza soluzioni, di anagrammi privi di significato, di giochi letterari e visivi assai intriganti. A questo proposito è emblematico Scintoista di razza, il titolo che viene dato a un quadro ovale dove un sacerdote scintoista si trova sospeso tra una mascella di un uomo preistorico e un pesce della specie razza.
Lo spettatore, dunque, farebbe bene a non porsi più domande lasciandosi suggestionare allo spaesamento della visione. Per una volta, siamo dispensati dal capire e il nostro compito è quello di “navigare” tra le immagini proposte dall’artista in un percorso dove capita d’imbattersi in enormi rinoceronti o in struzzi dal collo più lungo del normale che si strusciano sul ventre di una donna di cui non si vede il volto- una cosa è certa: l’artista milanese, negli ultimi due anni, ha modificato profondamente la sua pittura e. se in precedenza l’aspetto narrativo era ancora preponderante con taluni compiacimenti descrittivi, dal 1997 è avvenuta una vera e propria rivoluzione copernicana di cui Marco Vallora aveva già intuito gli esiti.. “Nelle opere di Zucchi le cose non s’incollano: è appunto questo il vero senso che mi pare di percepire. Il silenzio pesane, sotterraneo delle cose”, scriveva nel 1995 a proposito di una personale milanese di Zucchi. E ancora: “osservando questi dipinti colgo la forza dello straniamento delle cose, coese in uno strano concerto muto. Semplicemente l’incontro tra realtà che non hanno voglia di parlarsi, ma stanno bene così, insieme: fanno quadro mentale”[5].
Oggi il concerto è diventato assai più rumoroso e l’algida atmosfera di allora si è trasformata in una grancassa con opere che ci stordiscono all’interno di un cortocircuito visivo da cui ci si libera con difficoltà.
Zucchi è riuscito, con successo, a liberarsi dai complessi d’inferiorità che aveva nei confronti della pittura per entrare in un personalissimo universo magmatico e caotico dove, come ha scritto Max Ernst, il ruolo del pittore è quello di delineare i contorni e di proiettare ciò che si vede in lui.
Tutto questo senza dimenticare che siamo approdati al regno dell’assoluta artificialità, di fronte ad una pittura che percorre trasversalmente stili recenti e passati creando contiene interferenze alla visione. Spesso, infatti, a d un impianto compositivo di carattere surrealista si contrappone una pittura che, almeno formalmente, aderisce ai canoni dell’espressionismo e nelle sue opere si possono intravedere evidenti tracce di Giorgio De Chirico, Mario Sironi, Lucien Freud o Francis Bacon. Tuttavia, la fase della citazione è superata di fronte ad una ricerca artistica che ha lo scopo di creare una nuova sintassi utilizzando un vocabolario di segni che, oramai, fa parte del nostro bagaglio culturale.
La pittura di Zucchi, insomma, è disseminata di reperti, di schegge trasmesse da una visione trasversale dove in un’opera come Sillogismo siamese si può contemporaneamente strizzare l’occhio a Giorgio De Chirico (quell’uomo che gioca a golf sembra una parodia di una Piazza d’Italia) e ai fratelli Chapman, ossessionati dal doppio.
Ma non ci sono limiti alle assonanze culturali e in Sumo d’Egitto un’improbabile visione delle piramidi fa da fondo alla sfida tra due lottatori sumo dagli effetti scenografici. Particolarmente intrigante anche Post Pulp Pop caratterizzato da tre immagini disposte verticalmente dall’alto in basso: le rovine di una città antica, il ritrovamento di una mummia e, per finire, una borsa Prada con un design che ricorda la squama di un serpente.
Zucchi, insomma, non rinuncia affatto all’ironia e si lascia suggestionare dai deliri dell’immaginazione che fluttuano attraverso un universo contaminato dove si fa fatica a distinguere l’intima verità dell’io con i messaggi criptati e subliminali trasmessi quotidianamente dalla società consumistica e post tecnologica.
[1] Maurice Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, Se, Milano, 1989, p.23.
[2] Roland Barthes, L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Torino, 1985, p.150.
[3] Maurice Merleau-Ponty, op.cit., p.19.
[4] Rudolf Arnheim, Arte e percezione visiva, Feltrinelli, Milano, 1997, p.59.
[5] Marco Vallora, introduzione catalogo mostra personale di Andrea Zucchi, galleria Arte & Altro – Grossetti, Milano, 1995.