Argàno Brigante, Due o tre cose che so di Zucchi, ovvero: un Papalagi a spasso nel nostro pazzo pazzo mondo, catalogo della mostra / exhibition catalogue, Silvana Editoriale, Fondazione Durini, Milano.

Posted on Agosto 3, 2008

1. UN TRASVOLATORE DELLA NOTTE DELLA CIVILTÀ

Andrea Zucchi è di quelli che si è solitamente definire le “acque chete”.

Apparentemente tranquillo, riflessivo, silenzioso – per esser silenzioso è silenzioso, questo non si può negarlo – Zucchi osserva. Osserva molto.

Come se avesse da immagazzinare tanti di quei dati in quella sua testolina – detta anche, nomen omen, zucca: tutt’altro che vuota, però, bensì piena zeppa di strani pensieri, come ben presto vedremo –, i quali dati poi, come in uno di quei vecchi calcolatori d’altri tempi, abbisognano d’un bel po’ di tempo perché siano ampiamente elaborati, frullati, mixati, rimontati insieme, e infine risparati fuori come il frutto d’un qualche calcolo impazzito e imbizzarrito: ed ecco allora donne afgane in posa di fronte agli edifici di Frank Gehry, monaci Shaolin in Arizona, canguri nel deserto, sacerdoti scintoisti a Cape Carneval, papuani a Valencia, cinesi a San Pietro, rinoceronti a Brasilia, e poi danze rituali, pose irrituali, meditazioni, illuminazioni, boogie-woogie, funghi atomici, astronauti, cosmonauti, crononauti, viaggiatori, faraoni, rivoluzionari, utopisti, solipsisti, agonisti (antigravitazionali, ça va sans dire), bodhisattva, san sebastiani, animali selvatici, e tante, tante strane bizzarrie della natura e della scienza: buceri, nasiche, pesci giganti, polipi, acari, zebre, foche, feti….

È tutto, tutto mescolato in maniera selvaggia e incondizionata, nei quadri di Andrea Zucchi, come nella testa d’un selvaggio con la passione dell’etnologia che si trovi a zonzo per il mondo d’oggi: il famoso etnologo nel metrò di Marc Augè, forse; o, piuttosto, e più adeguatamente, la visione attualizzata del buon vecchio Papalagi – ve lo ricordate? –, com’era appunto chiamato l’uomo occidentale secondo il capo indigeno samoano Tuiavii di Tiavea, che visitò il “nostro mondo” e ne riportò una cronaca tra il veritiero e l’esilarante, dove le cose bizzarre e demenziali che fanno parte ormai integrante del nostro modo d’essere, e che a noi oggi paiono “normali”, diventavano straordinarie parodie di quello a cui s’è ridotta la nostra cosiddetta civiltà moderna, o surmoderna; laddove oggi, però, anche il bizzarro, il folckloristico, l’estraneo, il “diverso”, l’esotico, il meticcio e il multiculturale stesso, è, in realtà, stato ingerito, metabolizzato e digerito – e infine assorbito – dalla surmodernità; ed è dunque, in fondo, quello di Zucchi sul mondo, lo sguardo di una specie di illuminato, di un solitario mattoide mezzo strabico che, proprio in virtù di questo suo strabismo, sembra essere ormai diventato l’unico a vedere veramente, e che si trova dunque a guardare ogni cosa che gli capiti davanti agli occhi, e poi ce la risputa fuori con l’aria di dire: guardate, è così che la vedo io; provate a guardarla anche voi con i miei occhi, e vedrete in che grande, folle mescolìo di assurdità malaccozzate insieme siete ormai abituati a vivere…

È, quella di Zucchi, la punta estrema, ultima vorremmo dire, di quel processo di spiazzamento che, per dirla con le parole di Lautréamont, fu rappresentato, fin dai tempi dei surrealisti e della prima scoperta dell’inconscio, dall’incontro fortuito di un ombrello e di una macchina da cucire su un tavolo operatorio.

Oggi, l’ombrello ha però lasciato il posto a un fungo atomico, la macchina da cucire a uno di quegl’immensi e assurdi giocattoloni in ferro, vetro e acciaio che sono rappresentati dalle cosiddette architetture d’oggi – d’un Calatrava, d’un Gehry, o d’un Niemeyer –, giocattoloni per adulti fatti a bella posta per stupire e meravigliare il selvaggio che è riposto, zitto zitto, nel fondo del nostro animo; mentre il tavolo operatorio non è altro che l’epidermide di cui è fatto questo nostro pazzo, pazzo pazzo mondo.

E su tutto aleggia, come ha scritto Marco Vallora in uno dei primi, ma anche in uno dei più bei testi scritti sull’artista, “quest’atmsosfera Saint-Exupéry, da trasvolatore delle notte della civiltà. Come se tutto accadesse entro un aereo, castrato della sua funzionale mobilità: l’aereo bloccato e in disarmo della pittura, tenuto per compassione nell’hangar della memoria”, dove “l’Arca di Noè si è trasformata nella cabina di un aereo: e la modernità presta alla vista il suo oblò di vetro”.

2. ESOTERISMO E RITORNO

Tornando però a noi: Andrea Zucchi non avrebbe dovuto fare il pittore. O meglio, non soltanto: se diamo credito a ciò che l’artista raccontò in una vecchia intervista rilasciata ad Alessandro Riva una decina d’anni fa, “il sogno di fare l’artista, il pittore l’ho sempre avuto, connesso però ad altre cose… prima volevo fare il rivoluzionario, poi il santo… fallendo su tutti e due i fronti, sono tornato alla pittura”.

In realtà, per un periodo rischiò di fare nient’altro che lo Zucchi; ovvero l’imprenditore, come suo padre: che è già qualcosa!

Sì, avrebbe dovuto lavorare in ditta con il padre – almeno lui, diosanto!

E invece no.

Ci ha provato, non diciamo che non ci abbia provato: per otto o nove anni è persino andato in ufficio ogni mattina! Ma c’è voluto del gran tira-e-molla famigliare. “Mio padre aveva quattro figli maschi, fa l’industriale e nessuno ha seguito la sua strada, per cui io, che sono il più piccolo, ero un po’ la sua ultima chance…”, raccontava Andrea in quella vecchia intervista. Così, insisti insisti, il giovane Zucchi si iscrive prima all’università (filosofia, che è quella grazie alla quale ha poi avuto modo di trovar dei titoli ai suoi quadri del tipo: “Dilemma sull’inutilità della commutazione”, “Considerazioni di un impolitico”, “Agnizione periferica”, “Pascolo d’impermanenza”, “Discesa dell’archetipo umano nel mondo sub-lunare”, “Accelerazione di sistemi ad acqua nella caverna, ovvero l’enigma dei molti”, etc. etc.; e anche “Senza titolo”, poiché per dar dei titoli così semplici, da grado zero della scienza paratestuale, bisogna pure aver studiato!); s’è iscritto, dunque, quasi contemporaneamente: a filosofia, alla Statale; a un corso d’illustrazione (che ha poi violentemente rinnegato, senza però mai rinnegare la sua passione giovanile per l’illustrazione e per il fumetto: “prima che della pittura, da adolescente, mi sono innamorato proprio dei fumetti, soprattutto quello di fantascienza e dei supereroi: i Fantastici quattro, Capitan america, Conan… li divoravo letteralmente, fino a quando non ho scoperto le avanguardie artistiche, dal dadaismo al surrealismo, che hanno rappresentato il mio secondo, grande amore”); e infine, udite udite!, a una setta esoterica.

Solo così, evidentemente, gli pareva di aver messo intorno a sé uno schermo sufficiente per sopportare anche soltanto l’idea di andare in ufficio ogni mattina.

La verità è che quel bel tipo di bizzarro giovanotto, in pieni anni Ottanta, mentre noialtri ce ne andavamo in giro, chi a strologare di politica, chi a tirare ancora qualche ritardataria molotov, chi a scrivere romanzetti noir, chi a saltare alle feste al ritmo dei Righeira o del Gruppo italiano, chi a studiar già da professore, e chi, invece, a far quello che avrebbe fatto di lì a sempre nella vita – far finta di dir cose intelligenti per fare il filo alle ragazze, e intanto commentare le partite di pallone -: insomma, lui no: lui entrava in una setta esoterica. Oggi, bisogna dire, forse se ne vergogna un po’, ma visto che ha voluto che gli scrivessi io la biografia, che son pettegolo per natura, beh, peggio per lui, ora questa ve la racconto per benino.

“Da piccolino ero cattolico, come tutti”, raccontava sempre in quell’intervista. Poi sono diventato ateo. Ma mi affascinava l’idea che, attraverso una trasformazione della percezione, anche attraverso l’uso delle droghe, si sperimentasse una forma di coscienza diversa, che alterava anche la concezione del mondo; per cui da lì avevo cominciato a leggere saggi sull’espansione della coscienza, legate alla sottocultura degli anni sessanta e settanta… poi sono entrato in un gruppo esoterico”. Era, dice, “una scuola gnostica, un gruppo rosacrociano, con norme di vita molto severe… non bere, non fumare, niente droga, sconsigliato guardare la televisione… li avevo conosciuti attraverso un manifesto che avevo visto per strada, li avevo contattati, loro mi avevano mandato un corso attraverso varie dispense… poi dopo sei mesi potevi scegliere se entrare a farne parte. Io ci sono entrato, e ci sono rimasto per cinque anni”. Un’esperienza che Zucchi non ha mai rinnegato, in realtà, e che in qualche modo ha influito, se non direttamente sulla sua pittura, certo sul suo modo di vedere il mondo (e di riportarlo poi nella pittura).

3. UNA SCIENCE FICTION DELL’ARCAICO

In quel periodo, del resto, Zucchi fa davvero degli strani quadri. Ecco come racconta i primi: “uno, quando ero ancora al liceo, era una specie di indù nero sospeso in aria in un paesaggio un po’ fantascientifico… poi in un altro c’era una testa egizia con una scia di anime e una falce e martello… mischiavo un po’ di cose…” (più o meno, direte voi, esattamente quello che fa adesso: e non avete tutti i torti). E poi, ancora, in pieno periodo esoterico, un quadro con “il sistema solare che si sviluppava come un mandala: c’era il sole grande, e questi pianetini piccoli… l’impatto visivo era un insieme di cerchi poi con dentro delle figure mandaliche…”.

La verità è che parallelamente a queste esperienze filosofico-esoteriche, il giovane Zucchi faceva anche un gran scorpacciata di storia dell’arte. “All’inizio-inizio mi interessava molto il primo astrattismo… Kandinski, Mondrian… anche perché io ero molto interessato a insegnamenti teosofici, e l’astrattismo ha una forte componente di questo tipo… però poi la mia sensibilità è molto realista, per cui… dopo l’astrattismo, quello che mi ha coinvolto di più è stata (a parte la pittura antica) da una parte la metafisica, dall’altra il simbolismo… De Chirico, Savinio, in parte Carrà e Morandi per quello che hanno fatto di metafisico, poi un po’ Sironi… e per il simbolismo Gustave Moreau, Redon, qualcosa di Khnopff, e un po’ di minori…”.

Nel frattempo, però, si fa anche un’ottima cultura sulla storia delle avanguardie storiche. E contemporaneamente, come abbiamo visto, comincia anche a dipingere: da autodidatta: rivedicandolo anche, orgogliosamente.

Dopo un periodo di mescolamento selvaggio di temi dalle tinte un po’ fosche, in cui un certo baconismo di maniera si mischiava a immagini di derivazione fantascientifica e a suggestioni anticipatamente pulp e grandguignolesche (morti ammazzati, carni appese, sangue, simboli sessuali etc.: “i miei primi lavori”, dirà in un altra intervista, “erano un frullato misto di Bacon, De Chirico, pittura manierista e fumetto di fantascienza”), finalmente Zucchi tiene la sua prima vera mostra personale: è il 1993, il luogo è lo studio Pollice, a Milano, una stanza, piccola ma molto chic, in una viuzza dietro a corso Magenta, prestata da un amico, che si occupa di illuminazione d’arte in grande stile (oggi è uno dei più apprezzati nel campo); mentre a far da mediatore e mercante c’è un vecchio amico, Bruno Grossetti, erede dei Grossetti della Galleria dell’Annunciata, che tuttavia in seguito, avendo ben altra linea artistica, non potrà più seguirlo; ma è utilissimo in questa fase di prima uscita pubblica dell’artista. È proprio Grossetti, infatti, a insistere con Alessandro Riva – i due si conoscono fin dai tempi del liceo –, perché vada a vedere i quadri di questo giovane pittore che, Grossetti ne è convinto, al giovane critico “piaceranno moltissimo”: e da lì, infatti, tra Zucchi e Riva nascerà un connubio che al momento in cui scriviamo non si è ancora spento.

I quadri della prima mostra sono un passo avanti in quell’opera di mescolamento di elementi differenti, dove si aggiunge, però, una ritrovata armonia compositiva e una maggiore sicurezza tecnica: “Zucchi ha esordito nel 1993, con una serie di quadri che io giudico ancora oggi memorabili”, scriverà più tardi Riva: “quadri rigorosissimi, disegnati col compasso e la squadra, dove una figurazione che mixava influenze novecentesche e real-socialiste ad accenti baconiani era ingabbiata in una griglia predigitale, costruita col normografo, su cui erano sovrapposte scritte fortemente spiazzanti – terzine dantesche e slogan brigatisti. Dentro quei quadri, si alternavano i fantasmi del nostro passato collettivo e delle nostre più private paure, su uno scenario che stava a metà tra il film di fantascienza e l’incubo metropolitano… Fino al 1995, Zucchi ha continuato su quella strada, accentuando il carattere spiazzante dei soggetti, ma addolcendo la composizione con una pittura più classica, dalle linee più morbide e più sfumate, da realismo magico rivisitato, dove anche la linea che attraversava la superficie del quadro aveva perso rigidità, acquistando in scioltezza e levità”.

Marco Vallora, che viene chiamato a scrivere il testo per la mostra successiva, nel 1995 appunto – alla galleria di Grossetti –, descriverà i quadri di questo periodo come attraversati da un senso “non dell’antico, ma del vecchiotto, del de-moderno: che poi può anche benissimo risultare una sorta di fantascienza all’incontrario, una science-fiction dell’arcaico”, dove questo “coté antico, diciamo così, para-mitologico, iconologico per lo meno, viene messo a reagire con il nostro convulso mondo di oggi, telefonini, aerei, ritardi, i pesi per tenersi in forma”, ma il tutto dipinto con una tecnica asciutta, calda, un po’ antiquata appunto: “a differenza dei primi quadri, più squartati, più onirici, più encombrés, come direbbe un francese”, “pieni di rumore visivo, di urlanti larve alla Bacon” – “quadri clinici”, che rappresentano quasi una “rottura delle acque oniriche” – in questi più recenti “l’acqua è contenuta, invece, trattenuta da un vetro immaginario: ed è il bello di questa materia bagnata ma impermeabile, imperlata di umidori – un po’ crepuscolari”: e, su tutto, “quel torpore un po’ minerale del colore, quel color terra che sale sino al cielo, un clima di peltro, di pegamoide”, e, pittoricamente, “una pasta assorbita: sarà perché il pittore non usa preparare le tele e la juta assetata divora il pigmento, ma ne rimane come quest’impressione di affresco, di salnitro, nonostante il lucore brillante, vespertino delle forme”, con “certe atmosfere ovattate, un po’ soffocate, impedite di parlare”; atmosfera che al critico fa venire in mente certi autori degli anni Trenta e Quaranta: Carena, Cavalli, il primo Guidi, Donghi; o altri, come Baccio Maria Bacci, “maestri fiorentini minori e novecenteschi dell’epoca di Margherita Sarfatti, che parevano già allora di retroguardia, cui i Soffici e i Rosai guardavano con sufficienza, ma avevano una perizia delle tecniche davvero invidiabile”: tanto da strappare al critico una singolare definizione per Zucchi – ma tutto sommato assai calzante, soprattutto per i quadri di quel periodo: “un pittore degli anni Quaranta ma di oggi”; o anche: “un pittore del Realismo magico ma di oggi”.

4. MEMORIE DELL’ERA DIGITALE

Il tutto, però, mixato con quella strana tecnica da montaggio post-surrealista che ancora oggi lo contraddistingue: mappamondi e scimmie, neonati e buddha, bufali e maschere, frullati e frizionati insieme dal pittore-sciamano:

“non è nemmeno che riversi sulla tela il brodo primitivo del proprio romanzo onirico: trasceglie, incolla, seziona. Monta”, scrive ancora Vallora. “Sono attratto”, scriverà più tardi l’artista in uno di quei brevi scritti, inediti, che non a caso titola, autoironicamente, Autodafé, “dalla connessione di elementi incongruenti, dall’accumulo di contraddizioni che si stratificano e si adagiano senza confondersi”. Vallora paragona le strane bestie e gli strani personaggi che popolano i quadri di Zucchi in questo periodo – e che Riva, un po’ letterariamente, ha chiamato “i Colonizzatori” (gli stessi che lo accompagneranno sempre, in un modo o nell’altro, nella sua storia artistica: a conti fatti sono ancora oggi i protagonisti dei suoi quadri) –, li paragona, dicevamo, a quello struzzo “che attraversa un film di Buñuel come se niente

fosse”: “Ecco”, chiosa Vallora, “vorrei saper descrivere il surrealismo di Zucchi proprio così, nessuna paccottiglia onirica, nessun oggetto molle alla Dalì. La forza dello straniamento delle cose, cose in uno strano concerto muto. Semplicemente l’incontro tra realtà che non hanno voglia di parlarsi, ma stanno bene così, insieme: fanno quadro mentale”. “Sono frammenti di realtà che associo artificialmente e che volutamente non sono in relazione tra loro, se non talvolta per sottili e arbitrarie analogie”, dirà l’artista in un’altra intervista, rilasciata a Ivan Quaroni nel 2004. “Essendo attratto da una moltitudine d’opzioni tra cui non so o non voglio scegliere, devo inevitabilmente escogitare delle connessioni tra elementi incongruenti, accumulando così una serie di contraddizioni che si stratificano senza confondersi. Se questo genera un effetto di straniamento, probabilmente è il riflesso della mia confusione di fronte alla molteplicità d’impulsi a cui mi sento sottoposto. La pittura, per me, è in parte un tentativo di fermare questa forma di visione multipla, esteriore o interiore che sia, di filtrarla, solidificarla e renderla così parzialmente intellegibile, attraverso un fittizio ordine formale”.

Ma, dal 1995, la sua pittura cambia nuovamente registro: pur mantenendo quel ritmo “combinatorio” dal sapore post-surrealista, o post-dada, che fin dall’inizio lo ha contraddistinto, lo stile – quello stile che pur piaceva tanto a

Vallora, facendone un “pittore anni Quaranta ma di oggi” – cambia rapidamente passo.

“Dopo due anni di silenzio e di lavorìo solitario nel chiuso dello studio”, scriverà in quegli anni Alessandro Riva su “Arte”, “Zucchi torna ora fuori, come a una nuova vita, con una serie di quadri che si sono lasciati completamente alle spalle la patina un po’ rétro, da “science fiction dell’arcaico”, come l’ha definita Vallora, dei lavori precedenti, per una pittura veloce, gestuale, composta da una tavolozza elementare, scarnificata fino all’essenziale, che lascia intravedere qua e là la trama grezza della tela”.

Una pittura più libera, più disincantata, spesso fatta di pochi e ben calibrati segni, e di una tavolozza tutto sommato limitata, che evidentemente serve all’artista a lasciarsi dietro le spalle l’eccessiva minuziosità e il realismo dei quadri precedenti. Lo confermerà Alberto Fiz, che curerà la sua terza mostra personale, Configurazioni d’impermanenza, ancora a Milano, allo Spazio Consolo, nel 1998, e che parlerà di una “pittura fatta di enigmi senza soluzioni, di anagrammi privi di significato, di giochi letterari e visivi assai intriganti”, di fronte alla quale siamo finalmente “dispensati dal capire”, e invitati a lasciarci “suggestionare dallo spaesamento della visione”; ma che ha via via perso quell’aspetto narrativo che precedentemente era “ancora preponderante, con taluni compiacimenti descrittivi”, in virtù di una pittura più gestuale e scanzonata: “Zucchi è riuscito, con successo, a liberarsi dei complessi d’inferiorità che aveva nei confronti della pittura per entrare in un personalissimo universo magmatico e caotico dove, come ha scritto Max Ernst, il ruolo del pittore è quello di delineare i contorni e di proiettare ciò che si vede in lui. Tutto questo senza dimenticare che siamo approdati al regno dell’assoluta artificialità, di fronte ad una pittura che percorre trasversalmente stili recenti e passati creando continue interferenze alla visione. Spesso, infatti, ad un impianto compositivo di carattere surrealista si contrappone una pittura che, almeno formalmente, aderisce ai canoni dell’espressionismo e nelle sue opere si possono intravedere evidenti tracce di Giorgio De Chirico, Mario Sironi, Lucien Freud o Francis Bacon. Tuttavia, la fase della citazione è superata di fronte ad una ricerca artistica che ha lo scopo di creare una nuova sintassi utilizzando un vocabolario di segni che, oramai, fa parte del nostro bagaglio culturale”, e nel quale si possono trovare, mescolati tra loro, riferimenti dechirichiani e tecnologici, borse di Prada e rovine antiche, in “un universo contaminato dove si fa fatica a distinguere l’ultima verità dell’io con i messaggi criptati e subliminali trasmessi quotidianamente dalla società consumistica e post tecnologica”.

È “una pittura che affronta direttamente, senza più il timore reverenziale, i temi del nostro presente-futuro immediato”, scrive ancora Riva: “il genere (classico) del paesaggio diventa così un pretesto per mostrarci l’incubo (o la farsa) della fabbrica delle clonazioni con, indifferentemente, la pecora Dolly o le gemelle siamesi come voci narranti, il ritratto (o la maternità) sono rappresentati dall’immagine di una bambina giapponese dall’aria inespressiva che mostra ai nostri occhi-telecamere il suo bimbo-tamagotchi, la figura umana è sostituita da quella di uno scalatore trovato assiderato tra i ghiacci – macabro scheletro ancora abbigliato da montagna, com’era abbigliato da montagna Otzi, la mummia del Similaun contesa, come una sconcia reliquia, tra Italia e Austria. Zucchi sembra così raccontarci, con una cifra stilistica essenziale che reca nel suo dna echi neocubisti e neoespressionisti e memorie dell’era digitale, le ossessioni di cui la stampa, la tivù, la nostra stessa coscienza sembrano voracemente, e instancabilmente, cibarsi ogni giorno”.

5. LA SCOMPARSA DELLA NATURA

Nuovo ciclo, nuovo cambiamento: l’avvicinarsi del cambio di secolo, e di millennio, trova infatti Zucchi alle prese con un nuovo approccio pittorico: meno confusione, maggior rigore compositivo, e un’unità stilistica che lo riallontana dalle tentazioni espressioniste, senza però più riportarlo a quella patina “de-moderna” dei quadri del ’95: iniziano, infatti, a fianco dei grandi tableaux combinatori, anche le serie, per così dire zooologiche, dei rinoceronti prima (“Studi di contaminazione neoplastica dei rinoceronti”, del 1999), e dei “quadri polari” poi.

“Esiste ancora l’esotismo?”, si chiede Marco Meneguzzo (che gli curerà la mostra dei “quadri polari”, da Annovi, nel 2002), ragionando sul perché di questo spostare continuamente il fulcro dell’attenzione, prima su elementi caoticamente combinati insieme tra di loro, ora su immagini apparentemente e platealmente “altre”, “esotiche” appunto, prelevate dalle derive del mondo occidentale. “Esiste ancora l’esotismo?”, si chiede dunque Meneguzzo. “A guardare gli ultimi cicli di Andrea Zucchi sembrerebbe di sì, visto che si trattava di savane con rinoceronti e, adesso, di paesaggi polari… eppure, se fosse soltanto il soggetto “lontano”, a determinare l’esotico, questo sentimento sarebbe esaurito da un pezzo, respinto e cancellato dall’orizzonte della nostra mente e dei nostri sensi in virtù di una conoscenza millimetrica del pianeta, procurata da milioni di immagini documentaristiche, avanguardia di milioni di turisti. Ma non sono i ghiacci del Polo o le distese dell’Africa a generare la sensazione dell’esotico, cioè dello “straordinario”: è la presenza della pittura. La pittura è diventata “esotica” al di là di ogni soggetto, per il solo fatto di essere (ancora) usata. È lo strumento e la pratica della pittura, il sapere che esiste un pittore che agisce (quasi) come cinquecento anni fa, a rendere misterioso, favoloso, lontano ciò che sentiremmo assolutamente vicino se ritratto con qualsiasi altro medium”.

“In questo ultimo ciclo”, scrive Riva a proposito del quadri dei rinoceronti, “Zucchi è partito da una premessa – potremmo dire da una finzione –, quella di un mondo che non esiste se non nell’iperuranio della nostra memoria di bambini lettori di qualche improbabile libro didattico a sfondo naturalistico, o di spettatori di qualche parascientifico documentario televisivo sulla vita animale. Il mondo dei rinoceronti è, infatti, quanto di più irreale, di più finzionale – se mi si concede il termine – possa esistere nel (nostro) universo. Il suo lavoro diventa, così, pura indagine formale, puro ragionamento concettuale, privato di qualsiasi interferenza contenutistica o misunderstanding cult-modaiolo”.

Mimmo Di Marzio, nel 2003, decodificherà le diverse “anime” della “nuova linea” esotico-combinatoria di Zucchi con un approccio para-psicanalitico: “all’interno di una poetica che vede spesso l’arte assurgere a freddo testimone di una realtà sempre più mescolata e confusa alla fiction, e comunque filtrata da modelli linguistici ormai geneticamente mutuati dai media, Zucchi attua un ulteriore, drammatico, spostamento percettivo producendo una rappresentazione apparentemente realistica ma che, sul piano narrativo, si manifesta secondo un linguaggio analogico tipico del sogno. Tutte le immagini assumono così una valenza simbolica, ma secondo i codici irrazionali dell’inconscio collettivo. Così è anche – e forse soprattutto – per gli elementi naturalistici così ricorrenti nelle sue opere. Con l’iconografia della natura, finanche nei suoi caratteri più estremizzati, l’artista sembra infatti voler intrattenere un dialogo serrato, direi quasi archetipico. Ma la sua figurazione è al contempo assolutamente in-naturale, quasi che l’artista intenda con la pittura trasfigurare la realtà, ma non negarla”.

Anche attraverso il “raffreddamento” dell’immagine, grazie all’accostamento con “pezzi” di pittura astratta, che ricordano il neoplasticismo di Mondrian. “E così”, chiosa Mimmo di Marzio, “l’altra anima dell’artista (verrebbe da dire, il Mondrian che c’è in Zucchi) sente l’urgenza irrefrenabile di un controllo – di non perdere il controllo –, in una scientifica opera di razionalizzazione del mondo sensibile, per ridurlo invano a geometria e a lontana reminiscenza di astrazione”.

6. UNO STRANO DISTURBO PERCETTIVO

Bisogna infatti sottolineare che è proprio con questi nuovi cicli di opere, dai rinoceronti in poi (la citazione al neoplasticismo di Mondrian, nel ciclo dei rinoceronti, è infatti tutt’altro che casuale), che Zucchi accentua, a fronte di immagini provenienti per lo più da studi di animali, di paesaggi, di “lande lontane” ed esotiche – la savana per i rinoceronti, il polo nei quadri polari –, meno caotiche dunque nella loro composizione generale rispetto ai quadri precedenti, quello spiazzamento dell’immagine che, fin dai primi quadri, era rappresentato spesso da una linea che attraversava l’intera superficie della tela, come un “secondo piano di lettura” dell’opera, nel tentativo costante di “raffreddare” la pittura figurativa con strutture astratte che ne attraversano la superficie, quasi a installarvi sopra uno schermo protettivo; e, se nel ’95 quella linea era, secondo le parole di Vallora, null’altro che “una sagomatura astratta alla Magnelli: un nastro, non sai mai se cerebrale o se decorativo, che tenta di legare le cose, di imbastire l’orlo del mondo, ma non fa che sottolineare, anzi, questo scollamento senza più pathos”; con le nuove serie diventa invece una presenza ben più ingombrante ed evidente: “solida, strutturata, come un vero e proprio castello di strani rettangoli verdi – dall’aria chiaramente digitale”, scrive ancora Riva su “Arte”, “misteriosi simboli di un qualche linguaggio elettronico a noi sconosciuto, che sovrastano il paesaggio che noi siamo abituati a vedere e a conoscere”.

I paesaggi, le bestie, gli animali di Zucchi, sono dunque sempre più caratterizzati anche da quello strano “disturbo percettivo”, come definirà Marco Meneguzzo quella “serie di elementi quadrati e rettangolari, assolutamente geometrici, che gli fanno parlare di Mondrian e del neoplasticismo (ma non sarà invece una sorta di formazione neoplastica dell’immagine, vale a dire il cancro che la corrode dall’interno del suo stesso linguaggio?…) come inevitabile riferimento a ciò che la pittura è diventata, una volta perduta l’”innocenza” della rappresentazione. Ecco allora che tutti i quadri di Zucchi sono quadri “polari”, nel senso che trascorrono tra i due poli della pittura, quello iconico e quello aniconico, con tutti i corollari che questi magneti linguistici si portano dietro: la narratività e l’autoreferenzialità, il piacere e la purezza, il concreto e l’astratto (dove l’astratto è naturalmente la rappresentazione figurativa, e il concreto la materializzazione di forme geometriche…)”. Se, dunque, per il critico, “è legittimo evocare la figura di Mondrian, è forse ancor più immediato pensare a una sorta di difficoltà di ricezione, di trasmissione disturbata, così come avviene sugli schermi dei monitor non all’altezza della velocità e del peso dei bit necessari.

La superficie del quadro diventa allora uno schermo, e la pittura “mima”, irridente, la comunicazione elettronica”. Quello di Zucchi diventa allora sempre di più “un paesaggio che”, come scrive ancora Riva, “per il fatto stesso di essere visto attraverso questo strano schermo che lo sovrasta – metafora ideale di tutte le videocamere, le macchine digitali, le tivù a circuito chiuso che accompagnano ormai ovunque la nostra esistenza, dallo sportello del bancomat al traghetto delle vacanze alla porta dell’ufficio -, ha perso ormai definitivamente qualsiasi pretesa di naturalezza. E forse è proprio questo lo sguardo che già oggi siamo ormai abituati a posare, volenti o nolenti, sul mondo: uno sguardo eternamente filtrato, scannerizzato, digitalizzato. Uno sguardo che ha fatto definitivamente sparire quella vecchia, cara realtà a cui ci credevamo di essere tanto affezionati”.

L’ossimoro, dunque, diventa qui più che mai evidente: proprio laddove i quadri sono apparentemente più “naturali” – ovvero eseguiti secondo l’archetipo del naturale, che è l’esotico, così come noi lo conosciamo ormai solamente dai documentari naturalistici –, il quadro si fa più che mai “innaturale”, anche grazie alla griglia neoplastica che l’artista vi inserisce sopra.

Si potrebbe dire che la griglia abbia, qui, la stessa funzione destabilizzante, e di de-somiglianza logica, della celebre avvertenza che Magritte aggiunge al famoso disegno della pipa: ceci n’est pas une pipe, per Magritte; ceci n’est pas une bête, o ceci n’est pas un paysage, per Zucchi…

7. UN FITTIZIO ORDINE FORMALE

Ecco allora che il gioco a rimpiattino di Zucchi con la pittura, con il visibile, con il senso stesso delle cose che vediamo, ha apparentemente spostato di nuovo il suo obiettivo, ma senza mutare il senso più profondo della sua ricerca. “Vorrei essere misticamente fuso nell’unità del tutto ma ho un fondo di scetticismo che mi confonde le idee”, scrive ancora l’artista in uno dei suoi Autodafé. “Un po’ fuso lo sono, ma nel senso prosaico del termine. Fusione o confusione? Caos o Cosmo? Stato o Anarchia? Quali dilemmi! Se ci fosse la fusione non starei qui a perder tempo e la confusione non mi piace tanto; non mi dispiacerebbe invece un’anarchia che genera ordine, un forte ordine formale che ricompatti ciò che è frammento e casualità. (…) Sono attratto dalla connessione di elementi incongruenti, dall’accumulo di contraddizioni che si stratificano e si adagiano senza confondersi. La pittura per me nasce per fermare questa forma di visione, esteriore o interiore che sia, filtrarla, solidificarla e renderla così intellegibile e duratura. La pittura è il mio piccolo dominio anarchico dove almeno posso svilluppare un fittizio ordine formale”. Ecco, allora, il nascere di quella su cui l’artista stesso, nella sua pratica imperterrita di auto-demistificazione e di messa in crisi dei propri stessi sistemi di riferimento, ironizza, definendola “un’ideuzza, uzza, uzza”: “Fare delle scelte mi sfianca. Subisco il fascino di opzioni non facilmente conciliabili e per mantenere la botte piena e la moglie ubriaca devo escogitare spesso delle soluzioni ibride, che eludano una presa di posizione netta e mi consentano di rimanere coerentemente confuso. Amo la Pittura, la buona pittura e mi sforzo di dipingere bene, ma non dipingo bene, dipingo benino e non mi interessa essere uno dei tanti pittori che oggi dipinge benino, d’avanguardia o non d’avanguardia. Sviluppo il mio quadro, lo guardo e lo riguardo, non è male ma non mi soddisfa, non è abbastanza brutto da essere distrutto ma lasciarlo così proprio non ha senso, è un quadro troppo finito per essere finito, devo ritornarci su, ma come? CHE FARE? Inizio a rimuginare, cerco dappertutto stimoli visivi, rifletto sulle idee e ideuzze dell’arte contemporanea (faccio il puro ma sotto sotto mi piacerebbe avere un ideuzza di successo), vorrei essere un po’ più psichedelico ma ho un substrato troppo borghese, con l’arte astratta sarei più libero ma, dopo i primi amori, mi ha convinto chi la ritiene una forma superiore di decorazione, sono intrigato dagli effetti speciali della grafica digitale ma vuoi mettere la pittura rispetto al piattume delle immagini fotografiche o video. No, la pittura non si tradisce, è la mia sola certezza: voglio lavorare a oltranza nei termini specifici della pittura.

Qualcosa comunque devo fare, salvo il salvabile, trasformo un espediente in un metodo che confonda le acque. Sulla superfice del quadro sovrappongo un secondo livello dell’immagine, una sorta di disturbo percettivo (Do you remember the Doors of perception?) costituito da una serie di elementi quadrati e rettangolari che rimandano, da un lato alle composizioni neoplastiche di Mondrian e dell’astrazione geometrica, e dall’altro ad un possibile linguaggio da codice binario o da scansione elettronica.

È un ideuzza, uzza, uzza, ma per me per ora funzionicchia, icchia, icchia”.

8. DAI QUADRATI ALLE WHITE LINES

Siamo al 2005: dopo i quadrati post-digitali, ecco le white lines che arrivano

ad attraversare la superficie del quadro. È l’ennesima “strategia d’accumulo” – come la definisce Ivan Quaroni, che cura la mostra, ancora da Annovi, del 2005, intitolata appunto white lines –, messa in atto dal pittore per raffreddare e allontanare la nostra percezione dell’immagine dipinta; immagine che, sottolinea Quaroni, è sempre più debitrice dall’immaginario e infinito campionario che il reale ci rimbalza addosso in continuazione, attraverso i mille rivoli delle riproduzioni (digitali, fotografiche, televisive, cinematografiche, etc.): al punto che il critico paragona l’attività del pittore a quella dei DJ, secondo una logica “combinatoria” di immagini pre-esistenti.

Da qui, dunque, anche la necessità di “prenderne le distanze”, congelandole sotto una griglia astratta, qualsiasi essa sia.

“La verità”, scrive Quaroni, “è che Zucchi non poteva, e non può, sopportare la nuda evidenza dell’immagine, quella spudorata indiscrezione figurale, sempre debitrice nei confronti di una Storia che ha già indagato l’indagabile e prodotto il producibile.

E così ha proseguito, mostra dopo mostra, serie dopo serie, a prendere le dovute distanze dal quadro, a frapporre fra sé e la pittura elementi di disturbo, invocando, sempre, l’equilibrio di una visione lucida, disincantata, svincolata dalla prigione dell’ego. Per non rovinare nel naufragio di una pittura irrazionale, compiaciuta, ma nondimeno ladra d’immagini fotografiche, Zucchi ha dovuto imbrigliare i suoi soggetti nelle maglie strette di una gabbia visiva, di un tessuto cartesiano di linee incrociate di demarcazione”. Ed ecco allora che, con le white lines, torna, più evidente che mai, e tuttavia sottilmente evanescente – quasi, davvero, un vago affanno tecnologico nella ricezione, assottigliato e ridotto “ad una fine maglia di linee orizzontali o verticali, che quasi lasciano l’immagine intatta” – quel disturbo percettivo che accompagna i quadri del pittore da sempre; accompagnandosi, però, anche a una maggiore sintesi compositiva.

Tappa dopo tappa, ecco infatti che i quadri di Zucchi, un tempo ricchissimi di elementi follemente e caoticamente giustapposti, vanno però perdendo in quantità e capacità d’accumulo, acquistando invece in sinteticità. “Nella serie intitolata white lines”, scrive ancora Quaroni, “Zucchi torna alle sue ossessioni visive, concentrandosi sulla definizione di un solo soggetto e accantonando, per un momento, quella magia combinatoria, fatta di arditi accostamenti visivi e di stranianti giustapposizioni, che in fondo è stata una

prerogativa del suo stile”. “Forse”, conclude il critico, “Zucchi non ci è accorto che qualcosa sta cambiando, che una tensione si sta allentando. Le tele non sono più ingombre di figure, anzi, queste ultime si stagliano solitarie sulla superficie del quadro, come se l’artista volesse verificarne la forza e l’autonomia”.

9. IL MEDIUM È IL MESSAGGIO

Ma i combines di Zucchi sono tutt’altro che finiti. Li ritroveremo, oggi, seppure in forma assai più sintetica, più rarefatta: sono gli accostamenti tra non più di due immagini, ma assai differenti tra di loro, a cui accennavamo all’inizio del testo, e che costituiscono la trama narrativa e compositiva degli ultimissimi quadri dell’artista: una donna afgana davanti al museo di Frank Gehry a Bilbao, una berbera di fronte all’Atomium di Bruxelles, un guerriero della Nuova Guinea a Londra, di fronte alla Swiss Re Tower di Foster, un bucero il cui profilo sembra fare il verso alla stazione dell’aeroporto di Calatrava a Lione….

“Nei miei primi lavori giocavo sull’ambiguità dei significati di queste immagini sovrapposte”, diceva l’artista nell’intervista rilasciata a Ivan Quaroni. “Creavo, diciamo, l’illusione di una storia che in realtà non aveva alcun fondamento. In questi ultimi lavori, invece, le giustapposizioni iconografiche hanno assunto per me un valore esclusivamente formale. (…) Sono cosciente delle possibilità d’eventuali interpretazioni, ma quello che mi preme è piuttosto l’assemblamento d’immagini sulla base di una scelta formale e compositiva, non narrativa. Utilizzo banalmente il meccanismo delle libere associazioni, già sfruttato sistematicamente dai Surrealisti, ma non nel senso dell’automatismo psichico, che richiede all’artista di porsi come recettore medianico delle forze dell’inconscio. Più che sull’onirico direi, sono un medium che si sintonizza sul multimediale. Voglio in qualche modo fermare il flusso caotico d’immagini dei media e renderlo oggetto di contemplazione, non d’interpretazione”.

Sarà allora ancora un testo di Marco Meneguzzo, scritto nel 2004 – per la mostra alla galleria Obraz di Milano – a ragionare sul senso, a tutt’oggi, di questa persistenza della tecnica combinatoria nei lavori dell’artista: “forse”, scrive Meneguzzo, “è più attuale e corrispondente alla situazione di fatto parlare di flusso, che è un termine neutro, come neutra (!) può essere l’indifferenza con cui guardiamo a tutte le immagini, sia che dietro a esse si celi una strage terrorista o l’ultima fiction tivù. Zucchi, come tutti noi, vive in questo flusso di immagini, e allora acquista significato quella dichiarazione di “non scelta” delle immagini, o, meglio, di scelta dettata da motivi che egli stesso non si preoccupa di indagare. Semmai, ciò che tiene unite quelle immagini così distanti è quella sorta di tessuto connettivo colorato, costituito da quei segmenti astratti, da quella specie di disturbo elettronico formato da rettangoli che si sovrappongono all’immagine, o da quel “riempitivo” decorativo che riconduce alla serialità del rettangolo della tela immagini dimensionalmente differenti. (…) Quello è il continuum dell’opera, mentre l’immagine, per quanto più evidente e in primo piano, potrebbe addirittura essere intercambiabile”. Il ragionamento di Meneguzzo sembra riecheggiare, a distanza, il famoso paradosso di McLuhan: il medium è il messaggio. Così, paradosso per paradosso, anche nel lavoro di Zucchi non sarebbe dunque l’immagine, bensì quella sovrastruttura astratta che sta sopra l’immagine, a costituire il vero fulcro, compositivo e concettuale, del lavoro.

10. L’EQUILIBRIO IMPOSSIBILE DEL MONDO

È così? Potrebbe, sì, potrebbe: il continuum dell’opera non è, dunque, l’immagine del quadro, ma proprio il “disturbo percettivo”: quelle “sagomature astratte alla Magnelli” che attraversavano un tempo il quadro per cercare “di imbastire l’orlo del mondo”, o i quadrati neoplastici alla Mondrian, “misteriosi simboli di un qualche linguaggio elettronico a noi sconosciuto”, o le white lines, quel “tessuto cartesiano di linee incrociate di demarcazione”, o infine, ancora, quel “riempitivo decorativo che riconduce alla serialità del rettangolo della tela immagini dimensionalmente differenti”, o – come li ha definiti l’artista – semplici “elementi intrusivi”, trasformati in “uno strumento di separazione tra un’immagine e l’altra”.

Potrebbe, sì, potrebbe.

Peccato che, no: appena intravista una possibile riva, Zucchi se ne dilontana nuovamente, e alla svelta.

Oggi, infatti, nei suoi quadri non ci sono più i quadrati verdi, non c’è più la linea delicata “alla Magnelli”, non ci sono più neppure le white lines, e neanche i rettangoli colorati ai lati dell’immagine; ci sono solo le immagini, nude e crude, accostate e combinate tra loro secondo un impianto che, a prima vista, appare puramente, e unicamente, di bilanciamento e di ricerca di un (impossibile?) equilibrio formale, compositivo.

E tuttavia, nuovamente, e sorprendentemente, spiazzante: una donna yemenita a Rio, un mandrillo a Chartres, un canguro in Libia, un’arpia che vigila, minacciosa, sulla Mole Antonelliana, un falconiere mongolo al Walt Disney Music Hall di Los Angeles… dov’è finito, se è mai esistito, “l’ordine

fittizio” di questo pazzo, pazzo mondo? Forse è nell’incongruenza stessa delle immagini? O piuttosto nella sua armonia segreta, celata sotto la bizzarra congruenza e somiglianza formale di elementi così diametralmente opposti?

E il tentativo di raffreddare l’immagine, allora, quel voler “dare un ordine” impossibile al caos del “flusso” del reale?

Lasciamo ancora, e per l’ultima volta, la parola a Zucchi: “L’ordine di una forma basta a generare senso? Ci penso, ma ho smesso di preoccuparmene, poiché ritengo che volere dare senso alle cose è un’operazione che generalmente compiamo a posteriori. Giustifichiamo col pensiero ciò che il nostro istinto ci porta a fare, redigiamo la ricetta della frittata dopo averla cucinata, magari cogli avanzi rimasti. Se è buona bene, se no ne proviamo un altra, e va di lusso se piace anche a qualcun altro.

Ed è per questo che probabilmente cambio direzione così spesso, lo stesso sapore mi stufa e agl’altri o non piace o non fanno a tempo a abituarsi.

Perseguo una strategia fallimentare della pittura.

La pittura è una sequenza continua di fallimenti.

Cosa possiamo fare se non lavorare sui nostri difetti?”.