Ivan Quaroni, Intervista ad Andrea Zucchi… Quasi un Autodafé, catalogo della mostra / exhibition catalogue, Obraz, Milano.

Posted on Agosto 4, 2004

Una molteplicità di elementi visivi popola le tele di Andrea Zucchi, artista milanese (classe 1964) incline a dar vita a sorprendenti accostamenti e stranianti giustapposizioni iconografiche. Nei suoi quadri, Natura e Civiltà tecnologica si passano il testimone, citazioni colte e piacere per la mimesi si mescolano, generando suggestioni inedite. Autore di una ricerca figurativa di lontana ascendenza metafisica, Zucchi inserisce nella struttura visiva dei suoi quadri, elementi geometrici di sapore Neoplastico, in cui riecheggiano influssi della grafica digitale.

Attingendo al repertorio fotografico della carta stampata, l’arte di Andrea Zucchi, trova il proprio equilibrio nella coesistenza di elementi opposti e contradditori.

Ivan Quaroni: Al primo impatto, l’elemento più evidente dei tuoi lavori è l’effetto di straniamento, provocato dalla giustapposizione di immagini che non hanno alcun nesso tra loro…

Andrea Zucchi: In effetti, sono frammenti di realtà che associo artificialmente e che volutamente non sono in relazione tra loro, se non talvolta per sottili e arbitrarie analogie. Essendo attratto da una moltitudine d’opzioni tra cui non so o non voglio scegliere, devo inevitabilmente escogitare delle connessioni tra elementi incongruenti, accumulando così una serie di contraddizioni che si stratificano senza confondersi.

Se questo genera un effetto di straniamento, probabilmente è il riflesso della mia confusione di fronte alla molteplicità d’impulsi a cui mi sento sottoposto. La pittura, per me, è in parte un tentativo di fermare questa forma di visione multipla, esteriore o interiore che sia, di filtrarla, solidificarla e renderla così parzialmente intellegibile, attraverso un fittizio ordine formale.

I. Q.: Tuttavia, l’osservatore è portato a trovare una correlazione di senso tra le diverse immagini …

A. Z.: Nei miei primi lavori giocavo sull’ambiguità dei significati di queste immagini sovrapposte. Creavo, diciamo, l’illusione di una storia che in realtà non aveva alcun fondamento. In questi ultimi lavori, invece, le giustapposizioni iconografiche hanno assunto per me un valore esclusivamente formale. Nonostante, si trattino d’accostamenti di natura prevalentemente visiva, è pressoché inevitabile che alcune persone tendano a proiettare sui miei lavori significati ai quali non ho mai pensato. Ma il fatto di indurre ancora nello spettatore le domande “Perché?” e “Cosa significa?” lo ritengo un limite, un gioco poco interessante, in quanto non ritengo che risieda lì il potere di fascinazione di un’immagine.

I. Q.: Vuoi dire che da parte tua non c’è una premeditazione sui possibili significati che le tue opere possono suggerire?

A. Z.: Ovviamente ci penso, e molto. Le scelte associative che compio sono in parte istintive e in parte ponderate, mai però del tutto casuali.Sono cosciente delle possibilità d’eventuali interpretazioni, ma quello che mi preme è piuttosto l’assemblamento d’immagini sulla base di una scelta formale e compositiva, non narrativa.Utilizzo banalmente il meccanismo delle libere associazioni, già sfruttato sistematicamente dai Surrealisti, ma non nel senso dell’automatismo psichico, che richiede all’artista di porsi come recettore medianico delle forze dell’inconscio. Più che sull’onirico direi, sono un medium che si sintonizza sul multimediale. Voglio in qualche modo fermare il flusso caotico d’immagini dei media e renderlo oggetto di contemplazione, non d’interpretazione.

Devo dire che, aparte una certa fascinazione giovanile per Breton e per Max Ernst, il Surrealismo non mi ha mai conquistato del tutto. Soprattutto all’inizio, il mio lavoro è stato influenzato dalla pittura Metafisica e dall’arte di Francis Bacon, che precedono e chiudono quel movimento. Allora dipingevo quadri che erano degl’interni alla De Chirico, abitati da figure stravolte, al limite dell’orrorifico.

I. Q.: Un altro aspetto evidente della tua ricerca è l’inserto di elementi geometrici di ascendenza Neoplastica, che possono essere interpretati come un tentativo di razionalizzare l’immagine. È così?

A. Z.: L’aggiunta di elementi geometrici sull’impianto figurativo è il frutto di un lungo percorso. Ho iniziato con l’inserire delle linee che attraversavano il quadro come una sorta di ferite. Poi ho trasformato queste ferite in linee sottili che, come fossero dei mirini, avevano la funzione d’inquadrare l’immagine. Più tardi, le linee si sono trasformate in quadrati e rettangoli che richiamano da un lato gli artisti Neoplastici e dall’altro l’influsso della grafica digitale. Oggi, questi elementi intrusivi sono diventati uno strumento di separazione tra un’immagine e l’altra.

In origine queste aggiunte erano il riflesso di una forte insoddisfazione verso il mio lavoro, un’attitudine che mi obbligava ad intervenire continuamente sulla tela. Col tempo questa mia debolezza si è trasformata in un Modus Operandi, diventando un elemento costitutivo della mia cifra stilistica. È come se, senza quel tipo d’intervento, non riuscissi a chiudere il quadro, a distaccarmi da esso.

Nonostante l’influenza della grafica digitale, ci tengo però a sottolineare che sono un purista della pittura e che la tecnologia in arte m’interessa relativamente. Anzi, amo la pittura e la considero la più pura tra le arti visive proprio per la sua povertà di mezzi; bastano un supporto qualsiasi e dei pigmenti, perché in essa il processo del pensiero si manifesti senza intermediazione. La pittura non concede trucchi se non quelli specifici del mezzo, ed è per questo che è così difficile.

I. Q.: Qual è la fonte iconografica dei tuoi quadri?

A. Z.: Parto sempre da un’immagine fotografica, di solito scelta sfogliando ogni tipo di rivista o di libro. Quando trovo qualcosa che mi colpisce, sento il bisogno di riprodurla, di cedere al mio impulso di mimesi.

Successivamente, come se si trattasse di una composizione astratta, o di un blob pittorico, rifletto sui possibili accostamenti. Più che dal fluire della vita sono affascinato dalla staticità delle immagini, soprattutto di un mondo che non conosco e che vorrei fare mie, traducendole in pittura. Non credo però di essere uno dei tanti epigoni di Gerhard Richter, anche se è un pittore che stimo e amo, specialmente la serie “18 Oktober 1977”.

Copiare le fotografie è sempre stato un impulso naturale e primario che ho iniziato a praticare fin da bambino, qualcosa che mi soddisfa momentaneamente, ma che finisce per rivelarsi inadeguato, come un dolce a cui non riesco a resistere ma che mi lascia un retrogusto di nausea verso me stesso.

Cedo a quell’impulso, so che me ne pentirò quando sarò sazio, ma poi inizierò di nuovo ad abbuffarmi al prossimo stimolo.

Ciò nonostante credo che il riutilizzo dell’immagine fotografica sia in qualche modo uno dei temi principali che la pittura stia oggi ancora affrontando, e preferisco affrontarlo direttamente sul piano duro e puro del realismo, piuttosto che ricorrere ad espedienti ultrasfruttati di marca neoespressionista, pseudodigitale o peggio ancora pop.

I. Q.: Nei tuoi lavori si avverte la fascinazione per il mondo Orientale e per l’esoterismo: monaci Shaolin, Shadu indiani, donne col burka, reperti dell’antico Egitto…

A. Z.: Sono elementi che derivano sicuramente dal mio amore per i viaggi e per l’Oriente, anche se, per la verità, ho sempre preferito dipingere cose di cui non avevo esperienza diretta, passando attraverso la mediazione fotografica.

Quanto all’esoterismo, è stata la mia ragione di vita tra i 17 e i 24 anni circa. Mi sono interessato a varie dottrine orientali e occidentali, in particolar modo allo Gnosticismo, e sono entrato a far parte di un gruppo Rosacroce, ma poi mi sono accorto che stavo vivendo quell’esperienza in modo distorto e forzato e me ne sono allontanato. Oggi, rispetto a quegli insegnamenti, pratico una sorta di sospensione del giudizio. La mia anima, se ne ho una, è caduta in uno stato di sonno.

I. Q.: Proseguendo nella disanima della dialettica degli opposti, che mi sembra una caratteristica precipua del tuo lavoro, ho notato che spesso accosti l’universo naturale a quello tecnologico e civilizzato…

A. Z.: Ho sempre amato disegnare animali sin da bambino. Sono affascinato dall’immensa varietà di forme che la vita può generare, sia a livello biologico che culturale, poiché non percepisco ciò che l’uomo crea come qualcosa di separato dalla natura. Siamo immersi, credo, in un’unica realtà di cui cogliamo qua e là solo dei microscopici frammenti in relazione al nostro stato di coscienza e deformati dal nostro ego. Forse il mio bisogno costante di congiungere realtà distanti tra loro non è che un modo di ricercare o di desiderare un’unità originaria che non riusciamo mai ad afferrare. Un’unità eraclitea che contenga in sé un’infinita molteplicità di mondi in continua trasformazione.

I. Q.: Quanto sei stato influenzato dalla letteratura, in particolare da quella fantascientifica? (Abbiamo parlato di Dune di Frank Herbert, ricordi?).

A. Z.: Mi ha fatto molto piacere quando, vedendo dei miei lavori che rappresentavano delle donne in burka, mi hai detto di aver pensato più al ciclo di Dune che all’Afghanistan, non mi sarebbe mai venuto in mente, ma effettivamente è stata una lettura recente che mi aveva incantato. Leggo con grande trasporto libri di fantascienza, noir e horror, ma la mia formazione è tendenzialmente più legata alla tradizione della Grande Letteratura che a quella di genere, e prima che alla pittura mi sono dedicato per breve tempo alla poesia, con risultati incerti. Anche se come pittore mi sono avvicinato sempre di più posizioni puro-visibiliste, il mio retroterra è sicuramente impregnato di romanticismo e simbolismo.

I. Q.: Come giudichi la tua ricerca artistica nel contesto attuale?

A. Z.: Un disastro probabilmente, perché mi ritrovo sempre nella fazione dei cani sciolti, ma quelli isolati, non quelli che almeno fanno gruppetto. Sono guardato con sospetto dagli avanguardisti dell’ultimo minuto perché troppo legato a un linguaggio pittorico tradizionale, ed evitato da chi sostiene una pittura rassicurante in quanto ritenuto “difficile”, ovvero poco idoneo a decorare salotti. Mi sento purtroppo come un orfano del dadaismo, ormai annoiato dai giochini intelligenti di Duchamp e abbagliato dallo splendore irraggiungibile di Velasquez.

A parte ciò, il panorama attuale è bizzarro e deprimente ad un tempo, perché quando tutto è fattibile, diventa tutto piuttosto vacuo ed aleatorio. C’è molta professionalità, molto entertaining, e anche naturalmente molta sciatteria, ma è veramente raro vedere qualcosa di realmente emozionante, necessario e rivelatore. L’arte contemporanea ha generato una sequenza continua d’effetti speciali che non generano più né effetto, né sorpresa, dove il più delle volte si riciclano sempre le stesse idee trite e ritrite. Eppure quasi nessuno n’è immune, ci siamo dentro tutti, bravi e meno bravi. Dall’aspirare alla Gloria siamo passati a desiderare il successo, che è tutt’altra cosa.

O tempora, o mores!”.

I. Q.: Vorresti essere un artista diverso da ciò che sei?

A.Z.: In teoria, mi piacerebbe essere un pittore più istintivo, meno trattenuto, più libero, ma forse solo in teoria, perché in Arte sono un fautore di quell’indefinito “Grande Stile” che richiede comunque un forte controllo formale.

Certo, la pittura troppo rifinita e descrittiva non m’interessa, ma paradossalmente la mia natura mi ha portato nella direzione opposta. Il fatto di non essere mai soddisfatto di quello che faccio, di ritornare più volte su uno stesso quadro, ha fatto di me un pittore formalmente “pulito”.

Il piccolo dramma della mia pittura è, dunque, quello di sembrare fotografica e illustrativa, pur essendo generata da una stratificazione caotica di sovraimpressioni.