Marco Meneguzzo, I poli del quadro, catalogo della mostra / exhibition catalogue, Galleria Annovi, Sassuolo (Modena).

Posted on Agosto 4, 2001

Spesso la pittura ha amato i luoghi lontani nel tempo e nello spazio. Quando questa sensazione si è consolidata e precisata, quando cioè il soggetto “vicino” si è potuto registrare, analizzare, misurare – magari con la fotografia, in piena era borghese – è nato l’esotismo: un luogo esistente, ma quasi irraggiungibile, teatro di vicende straordinarie, che non erano altro che la proiezione dei desideri di chi viveva in un mondo ormai troppo misurato.

Esiste ancora l’esotismo? A guardare gli ultimi cicli di Andrea Zucchi sembrerebbe di sì, visto che si trattava di savane con rinoceronti e, adesso, di paesaggi polari… eppure, se fosse soltanto il soggetto “lontano” , a determinare l’esotico, questo sentimento sarebbe esaurito da un pezzo, respinto e cancellato dall’orizzonte della nostra mente e dei nostri sensi in virtù di una conoscenza millimetrica del pianeta, procurata da milioni di immagini documentaristiche, avanguardia di milioni di turisti. Ma non sono i ghiacci del Polo o le distese dell’Africa a generare la sensazione dell’esotico, cioè dello “straordinario”: è la presenza della pittura.

La pittura è diventata “esotica” al di là di ogni soggetto, per il solo fatto di essere (ancora) usata. E’ lo strumento e la pratica della pittura, il sapere che esiste un pittore che agisce (quasi) come cinquecento anni fa, a rendere misterioso, favoloso, lontano ciò che sentiremmo assolutamente vicino se ritratto con qualsiasi altro medium. In questo ultimo ciclo del giovane artista milanese, che riguarda un posto distante come il Polo (e non importa quale dei due…) c’è l’immagine di un orso bianco che sta saltando su un pezzo di banchisa, e appariva evidente che Zucchi l’aveva ripresa da una fotografia, tanto che per verificare quel che provavo gli ho chiesto di farmela vedere: una sequenza bella e patinata di quattro foto che mostrano la potenza dell’animale…ma il punto non era lì, era nel fatto che l’immagine pittorica conferiva a quel movimento così dinamico una fissità quasi metafisica che escludeva dalla mente ogni prima e ogni dopo di quell’azione: ne cancellava, cioè, l’istante, conferendo all’immagine quella sospensione che porta con sé il mistero di una storia, che fa rinascere il senso di lontananza, che fa sognare invece che vedere.

Ma per non concedere troppo a uno spirito romantico (del resto ben dichiarato dalla presenza di una citazione da Caspar David Friedrich) va detto che la pittura di Zucchi, proprio nel momento della massima evocazione, immette nel quadro – inteso sia come dipinto che come “schermo” – un “disturbo” percettivo, una serie di elementi quadrati e rettangolari, assolutamente geometrici, che gli fanno parlare di Mondrian e del neoplasticismo (ma non sarà invece una sorta di formazione neoplastica dell’immagine, vale a dire il cancro che la corrode dall’interno del suo stesso linguaggio?…) come inevitabile riferimento a ciò che la pittura è diventata, una volta perduta l’ ”innocenza” della rappresentazione. Ecco allora che tutti i quadri di Zucchi sono quadri “polari”, nel senso che trascorrono tra i due poli della pittura, quello iconico e quello aniconico, con tutti i corollari che questi magneti linguistici si portano dietro: la narratività e l’autoreferenzialità, il piacere e la purezza, il concreto e l’astratto (dove l’astratto è naturalmente la rappresentazione figurativa, e il concreto la materializzazione di forme geometriche…). Così, l’equilibrio è la grande sfida di Zucchi, e per raggiungerlo non esita a sfruttare tutti gli artifici e i concetti della pittura, senza privilegiarne nessuno: sono infatti ormai lontani i tempi in cui l’artista compiva il suo apprendistato pittorico attraverso tutti gli stadi del simbolico, dell’onirico, del surreale, oggi nascosti dietro una maggior indifferenza al racconto, alla scelta del soggetto (…“mi hanno cominciato a interessare gli iceberg – mi dice Andrea – per i giochi di luce, per i riflessi cangianti che conferiscono all’acqua e al bianco…”, come a dire che l’avventura in situazioni estreme non è il tema principale della scelta polare). In più, la pratica della pittura non si consuma neppure più in se stessa ma, cercato l’equilibrio all’interno di essa attraverso la tensione tra i suoi due poli, il quadro si proietta all’esterno del proprio linguaggio e, ancora una volta, non in virtù della narrazione evocata dal soggetto, ma grazie all’azione di disturbo dell’immagine, che è al contempo interna ed esterna alla pittura. Se infatti è legittimo evocare la figura di Mondrian, è forse ancor più immediato pensare a una sorta di difficoltà di ricezione, di trasmissione disturbata dell’immagine, così come avviene sugli schermi dei monitor non all’altezza della velocità e del peso dei bit necessari. La superficie del quadro diventa allora uno schermo, e la pittura “mima”, irridente, la comunicazione elettronica, anche se sa benissimo che qualsiasi concetto di “mimesi” applicata a se stessa non è che l’ennesimo tentativo di darsi una definizione.