Marco Senaldi, Labirinto di specchi. Una conversazione fra Andrea Zucchi e Marco Senaldi, catalogo della mostra / Antiquum Oratorium Passionis, Basilica di Sant’Ambrogio, Milano.

Posted on Agosto 4, 2012

Marco Senaldi: Da dove nascono questi disegni?

Andrea Zucchi: Si tratta di rielaborazioni che vanno dal linguaggio fotografico al linguaggio del disegno a biro. Anche se l’effetto, se si potessero confrontare i due originali, è piuttosto diverso, il confine è delicato e sottile.

MS: Nell’arte contemporanea questo riutilizzo di immagini preesistenti è stato spesso sfruttato…

AZ:Sì, di fatto questa esigenza di riformulare cose già esistenti deriva forse da una necessità di impossessarsi, di fissare in noi ciò che conquista la nostra attenzione. Questo avveniva anche in passato – ma era tutto più filtrato da copie in cui la rielaborazione manuale e mentale era maggiore. Oggi con l’ausilio tecnologico è molto più facile avere sotto mano le immagini di cui ci si vuole appropriare.Comunque, il problema della copia non lo posso sfuggire. D’istinto il mio impulso a disegnare è sempre stato quello di copiare, anche con una sorta di senso di colpa. Ho finito per accettarlo, perché è un’esigenza che, come dice il visconte di Valmont nelle Relazioni pericolose, trascende la mia volontà. Da un artista ci si aspetterebbe la creazione, un termine che mi dà quasi fastidio – ma è un’aporia da cui non riesco a uscire. D’altra parte, anche in pittura, l’appropriazione è una costante novecentesca, che gli artisti per me più interessanti, da Bacon a Warhol a Richter, hanno spesso praticato.

MS: Però trovo affascinante che la questione della copia ti faccia problema – mentre in molti casi questa posizione è stata assunta in maniera acritica, data per scontata.

AZ: Talvolta, cerco di giustificarmi anche in questo modo: io vivo ritirato in un mondo mio, in cui sono circondato da libri e immagini riprodotte. Guardare le immagini mi è quasi più naturale che osservare le cose – sono lo scenario mentale del mio orizzonte visivo, più della realtà stessa. Questo impulso a copiare quindi ha qualcosa di inevitabile. Ed è una forma di realismo.

MS: Nel tuo caso, la tecnica che usi rende però evidente una rottura fondamentale. Infatti, anche nelle forme d’arte tradizionale c’è la ripresa di modelli preesistenti, ma è sempre una ripresa di tipo iconografico o per imitazione, mentre invece qui avviene in modo ravvicinato attraverso il calco.

AZ: E’ un ricalco, ma non dell’originale: trattandosi di fotografie prese da libri, è il ricalco di una fotocopia; la copia di una copia di una copia… un po’ come in Platone. Che forse non aveva tutti i torti a dubitare degli artisti…

MS: In Platone però il passaggio dall’originale ideale alle copie è   governato dall’imitazione a distanza. George Didi-Huberman, che si è occupato proprio di filosofia delle immagini, ha scritto appunto un saggio sull’immagine “per contatto” che invece ha una genealogia diversa, è un corpo a corpo fra immagini, e sovverte la relazione trascendentale a favore di un rapporto di immanenza. A me questi lavori ricordano certi esercizi che si fanno da bambini…

AZ: Nel mio caso, il lavoro manuale è probabilmente superiore a quello servito per produrre l’ “originale” fotografico; è un lavoro sì meccanico, ma anche semionirico, perché quando tratteggi non segui più la forma, ma il chiaroscuro, e vai persino a caso. Questi lavori nascono alla sera, in casa, hanno una dimensione che sconfina quasi nella trance, il segno della biro che non stacca mai fa entrare la mano in una sorta di automatismo, la biro stessa con la sua punta sferica dà vita a un ghirigoro veloce e ossessivo.

MS: Ho notato difatti che, anche se l’impianto generale dell’immagine è naturalmente figurativo, se ne estrapoli e analizzi un dettaglio viene fuori un disegno astratto, quasi un disegno automatico alla Masson o alla Twombly…

AZ: …perché non è un disegno che costruisce e definisce una forma – il ricalco va per conto suo, come una sorta di impressionismo, però nervoso, ripetitivo, che torna continuamente su se stesso.

MS: Questo onirismo del segno non potrebbe essere messo in relazione con i soggetti di queste immagini esotiche, immagini che, appunto, “fanno sognare”?

AZ: …sì, devo dire che rivedendo questi disegni penso molto ai libri illustrati che leggevo da ragazzino – perdendo la dimensione fotografica, queste immagini tornano ad appartenere ad un mondo immaginario e avventuroso, un po’ salgariano…

MS: Per di più sono immagini di qualcosa di lontano nello spazio, ma anche nel tempo – la Sfinge qui appare ancora semisepolta, mentre oggi è ridotta a un grosso soprammobile ad uso turistico. Però, rispetto ai tuoi lavori che mettevano insieme personaggi esotici accanto a elementi architettonici razionalisti, questi mi sembrano più serrati, coerenti…

AZ: Là mettevo in scena dei confronti stridenti e apparentemente improbabili – ma quello che sta succedendo oggi sotto il segno della globalizzazione è proprio un rimescolamento del mondo che genera una moltitudine di connessioni impreviste…

MS: Quei lavori mi facevano pensare più alla geografia, questi alla storia. Qui è come se tu fossi un viaggiatore nel tempo.

AZ: Sono oggettivamente dei viaggi all’indietro, perché ti fanno riosservare squarci di fine ‘800 e inizio ‘900 senza il sedimento del tempo che è impresso nel negativo fotografico – non c’è la sensazione di un’epoca passata che la fotografia porta inevitabilmente con sé. In questo senso, tornano a essere dei lavori immaginari, perché depurano un contesto storico e lo proiettano in una eternità astratta.

MS: Direi che la dicitura disegno qui risulta riduttiva, perché il disegno fa pensare allo stadio preparatorio di qualcos’altro che poi sarebbe il quadro nella sua completezza – mentre questi lavori stanno in modo indipendente, sono autosufficienti, si risolvono autonomamente…

AZ: Hanno quasi più affinità con le incisioni, proprio per il tipo di lavoro e di sovrapposizione del segno, che viene insistito e reiterato fino ad ottenere dei giochi di chiaroscuro. Per capirci, per riuscire a fare un centimetro quadrato di blu pieno con la biro ci devi passare sopra 50, 60 volte… Il fatto di ottenere una tinta piena con un tratteggio è una peculiarità propria della penna a sfera, è un effetto che mi seduce. L’amore per questo tipo di segno non mi nasce però da Boetti, che sarebbe il rimando più ovvio, ma dagli straordinari schizzi che Giacometti faceva nei musei, appunto a biro…

MS: ...a me la biro ricorda Jan Fabre, che l’ha usata anche su dimensioni gigantesche – fino a ricoprire un intero castello come in Tivoli (1993)… Il che alla fine mi fa pensare che dietro la biro c’è qualcosa di compulsivo, di ossessivo, che ci spinge a fare quei ghirigori insensati quando siamo al telefono…

AZ: …è il ghirigoro specifico della penna a sfera – mentre a d esempio la china ti conduce a fare dei tratteggi interrotti o puntinati…

MS:potrebbe sembrare un dettaglio meramente tecnico, ma ci si deve ricordare che la biro è nata per scrivere, non per disegnare. D’altra parte è uno strumento molto contemporaneo, non va intinto in un calamaio, non ha bisogno di ricariche frequenti come la stilo, l’inchiostro si secca immediatamente – lo trovo un oggetto il cui impatto è stato persino sottovalutato, lo guardiamo con aria di sufficienza, ma è una tecnologia fantastica e che è durata nel tempo. Da quando è stata inventata, nel 1938, se ne sono venduti più di 100 miliardi di pezzi, un successo credo con pochi confronti. E’ una sintesi del logocentrismo d’Occidente: ed è un po’ un paradosso che tu ci abbia fatto dei ritratti dell’Oriente…. Non gioca forse in questo caso una visione nostalgica dell’altrove?

AZ: La nostalgia mi affascina, ma non mi appartiene; parlerei piuttosto di inattualità. Io mi sento purtroppo molto lontano dalla mia epoca, mi identifico in universo mentale che, probabilmente, in parte non esiste più, e che per esempio nell’800 ritrovo tantissimo. Anche se forse i periodi più felici sono quelli in cui ci si trova in sintonia con gli anni in cui si vive, io mi sento più a mio agio in un romanzo dell’800 che in un film attuale. In Che cos’è il contemporaneo (2008)Agamben dice: “Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo”.

D’altra parte, sicuramente se fossi vissuto nell’800 avrei aborrito quel secolo – e gli autori ottocenteschi che leggo spesso lo criticano ferocemente, perché è stato un periodo pedante, noioso, ecc. Un’epoca ci piace perché la rivediamo attraverso le opere più significative che ha generato.

MS: D’altra parte, quando facciamo riferimento all’800, a me viene da pensare che è un secolo già molto contemporaneo, direi quasi post-moderno, arrivato dopo il modello progressista e aggressivo dell’illuminismo. Queste stesse foto, che sono il tuo modello e che appartengono a quest’epoca quasi crepuscolare, tradiscono il fatto di essere permeate dalla consapevolezza, ancora non del tutto chiara, ma già emergente, del fatto che quello che viene fotografato sta per finire. A me ricordano le foto dei nativi americani eseguite da Edward S. Curtis nei primi anni del ‘900 – ritratti molto belli, in cui gli indiani però non sono colti nel loro originario contesto sociale, ma addobbati con abiti folkloristici e messi in posa appositamente per l’occhio del fotografo.

AZ: Anche nelle foto delle geishe lo sfondo è spesso dipinto… siamo già di fronte ad un’anticipazione dei simulacri, a un caleidoscopio che riflette il crepuscolo di un’epoca. A me interessava far riemergere quello spettacolo che si è esaurito e che non tornerà più – come se, nell’infinità delle attività umane, fosse giusto ricordare che c’è stato anche quello. Riportare lo sguardo su un frammento di realtà che non c’è più, ma che, a suo modo, è stato incantevole.

MS: E’ vero che, se le fotografie di partenza sono tutte di fine ottocento, provengono da mondi differenti – Egitto, India, Giappone. Che legame c’è tra i tre nuclei iconografici?

AZ: Non c’è un rapporto determinato, sono come degli emblemi su cui si è stratificata la nostra idea di esotismo. Il mondo giapponese ha un’eleganza visiva straordinaria che ha sedotto noi occidentali, la potenza delle piramidi è una struggente manifestazione del nostro desiderio di eternità, ma inizialmente sono rimasto affascinato dallo sfarzo straordinario delle figure dei maharaja. Nei loro ritratti la differenza di fogge e costumi che si trova è enorme. Come spesso avviene anche nei processi evolutivi, da una forma iniziale scaturisce un’infinità di variazioni.

MS: Qui sembra emergere un’altra idea del concetto di copia, come strategia di variazione finché alla fine non viene fuori qualcosa di originale. L’originalità vera consiste nella strategia che applichi nell’appropriarti di un universo di immagini precostituite…

AZ: Credo che quello che rende qualitativamente diverso un lavoro da un altro sia l’investimento psichico ed emotivo. Alla fine, ciò che rende qualcosa un’opera d’arte sconfina nell’imponderabile, nell’energia che viene catalizzata e che non è mai spiegabile fino in fondo in termini teoretici. La teoria aiuta a definire e fornire dei parametri, ma non chiude mai il cerchio. Per me, l’opera è qualcosa di molto materiale e molto fisico – anche se forse, a chi poi li vede riprodotti in catalogo, questi disegni potranno sembrare qualcosa di astratto, immateriale e senza dimensione. É un andirivieni di rimandi, un gioco di riflessi dove un’immagine si cristallizza e poi si riproietta da un’altra parte, modificandosi ulteriormente… E noi siamo in mezzo a questo labirinto di specchi.